Guasticce Un’esperienza unica, arricchente, gioiosa e di crescita. Lisa Mignacca, 22enne di Guasticce, è da poco tornata da un viaggio negli Stati Uniti durato un anno e mezzo. Là ha lavorato come “ragazza alla pari” per alcune famiglie. Finito il lavoro, la giovane coltivava il sogno che ha nel cuore: fare teatro. E questa esperienza di vita, fra l’altro (far detonare emozioni, socializzare, cimentarsi col lavoro e con la lingua straniera), le è servita anche a questo: confermarsi nel suo percorso di auto-scoperta. Eccola rispondere alle nostre domande. L’intervista di Collenews.it.
Lisa, tu vieni da una esperienza all’estero… , raccontaci: dove sei stata e per quanto tempo?
«Sono stata negli Stati Uniti per 18 mesi. Sono partita da New York e sono stata 8 mesi là, poi la prima famiglia non aveva più bisogno di me e quindi ho dovuto trovare un’altra famiglia e l’ho trovata, fortunatamente a Seattle, quindi sono stata per 4 mesi in quella città. Poi, mi era scaduto il contratto e così ho dovuto trovare un’altra famiglia a Los Angeles, dove sono rimasta per circa due mesi e mezzo fino all’arrivo del Covid».
Dopo Los Angeles c’è stata qualche altra tappa?
«Sì: lo Utah e il Wyoming, durante l’emergenza Covid».
Cosa facevi esattamente negli Stati Uniti?
«Ho lavorato con i bambini, facevo la ragazza alla pari: quindi mi prendevo cura di loro, li accompagnavo a scuola con la macchina (quindi, ho preso anche la patente), li accompagnavo a fare diverse attività, giocavo insieme a loro, lavavo le loro cose, facevo da mangiare, a volte anche per l’intera famiglia».
Insomma, hai fatto quel che si dice la “baby sitter”…
«Sì, baby sitter, però vivevo con loro, quindi un’esperienza un po’ più coinvolgente. Cultural exchange, uno scambio culturale, non lo chiamerei solo baby sitter».
Come è stata l’esperienza con la lingua inglese?
«All’inizio un po’ frustrante, perché hai a che fare con dei bambini e vuoi farci amicizia e non è semplice. Però, poi mi sono messa l’animo in pace. A volte anche i bambini mi davano una mano, mi aiutavano con i termini e mi correggevano e poi ho frequentato anche diversi corsi di inglese (oltre che di teatro) e ho imparato. Non posso dire di conoscere perfettamente l’Inglese, non sono una madrelingua, non mi reputo chissà cos,a però me la so cavare, ecco».
Quindi, è stata un po’ l’esperienza forzata, il dover per forza comunicare, che ti ha portato a padroneggiare meglio la lingua… Come hai trovato gli americani da un punto di vista umano e culturale? Hai notato delle differenze nello stile di vita rispetto all’ambiente italiano?
«Guarda: li ho trovati sicuramente molto più aperti, però un pochino più freddi e individualisti».
Più aperti dal punto di vista mentale?
«Sì, soprattutto nelle grandi città: New York, Los Angeles…, Anche a Seattle… Li ho trovati anche persone molto libere di esprimersi, intraprendenti e coraggiose. Sono un po’ meno “calorosi” degli italiani».
Li hai trovati meno conviviali, però più inclini ad autodeterminarsi, insomma?
«Sì, infatti. Con alcuni di loro però è nata un’amicizia; a volte ci sentiamo, spero di ritornare da loro».
Quindi, hai costruito dei rapporti che proseguiranno nel tempo…
«Assolutamente: spero con tutto il cuore di sì e spero di avere un appoggio; loro sicuramente l’avranno se vorranno venire qua».
Infatti parlavi di “cultural exchange”, quindi ci dovrebbe essere anche da parte loro la possibilità di farsi un’esperienza dell’Italia.
«Sì, diversi di loro li ho conosciuti nell’ambito teatrale, quindi sono persone molto aperte e abbiamo instaurato questa grande amicizia. Io ho parlato dell’Italia come se fosse il paradiso, un po’ come facciamo tutti quando siamo all’estero, l’ho valorizzata tantissimo e spero che vengano. Spero anche io di poter tornare da loro, se ritornerò a New York».
Dal punto di vista lavorativo, invece… come è stato trovare lavoro? L’hai cercato da Guasticce e poi sei partita oppure sei partita a scatola chiusa e hai fatto “un salto nel buio”?
«No, non si può fare un salto nel buio; mi sono appoggiata ad un’agenzia per ragazze alla pari e da lì ho iniziato a crearmi un profilo su internet, sul sito dell’agenzia».
Sono tipo le agenzie di somministrazione di lavoro che ci sono in Italia?
«Sì, però solamente per ragazze alla pari. Sono solo per l’America e da qua ho trovato una famiglia che mi ha fatto un’intervista, mi hanno scelto e ho fatto subito il passaporto e il visto J1 (one) per le persone che vogliono fare un’esperienza come ragazza alla pari, perché dovevo partire entro un mese e mezzo. Dopo un mese e mezzo ho preso l’aereo con altri ragazzi come me, che stavano andando in altri posti».
Avevi altre amiche italiane?
«No, erano persone che non conoscevo provenienti da tutta l’Italia e che sono finite magari in Texas, in California oppure in Arizona, perché hanno trovato le famiglie in altre parti dell’America. Io ho avuto la fortuna di trovarne una che abita proprio nel centro di New York, che non è facile, perché sono poche le famiglie che cercano proprio dalla città, magari ce ne sono nello Stato di New York, ma è difficile trovarne proprio a Brooklyn».
Quindi, ti sei sentita ben accetta in queste famiglie… Quante sono state, complessivamente?
«Tre famiglie. Con la prima è stato un po’ più difficile, anche per la questione della lingua; io ero un po’ a disagio, quindi c’è voluto un po’. Nell’ultima famiglia sono diventata come una sorella per i figli, oppure un’altra figlia per i genitori. Nella seconda famiglia… tutto bene, è stata una convivenza normale, mi sentivo abbastanza a mio agio. E poi, dopo il lavoro, c’è sempre la città da vivere, ci sono gli amici; ovviamente non si sta 24 ore con il bambino, a parte per la situazione del Covid…».
Appunto: tu hai vissuto in parte anche l’esperienza del Covid là… Quando sei tornata quando esattamente?
«Il 15 luglio».
Quindi, hai vissuto l’intera fase critica negli Stati Uniti. Come hai vissuto questa esperienza e come ti sembra che l’abbiano vissuta gli americani?
«I miei genitori mi raccontavano cosa stava succedendo in Italia e io ho messo in allarme la famiglia che mi ospitava dicendo che presto sarebbe successo anche là, come era accaduto in Cina e quindi all’inizio avevo un po’ di ansia, perché non sapevo bene cosa stesse succedendo; mi sembrava così strana questa situazione, inverosimile! Ho anche pensato di tornare a casa, potendo, perché se l’emergenza fosse durata a lungo temevo di non poter più tornare».
Quindi, hai convissuto anche con questa paura?
«Un pochino sì, perché sei da sola, è una cosa che devi affrontare, devi fare delle scelte… poi mi ero appena trasferita da questa famiglia, quindi era tutto nuovo, però quando ho espresso loro le mie preoccupazioni e mi sono messa a piangere, mi hanno subito abbracciato, mi hanno detto: “Stai tranquilla, ci prendiamo noi cura di te, sei parte della nostra famiglia, se vuoi tornare a casa, torna. però sappi che puoi anche stare qua senza problemi, anzi: noi ti vogliamo qua“».
Quindi, questo è stato rassicurante…
«Sì, io mi sono sentita sicura, ho sentito che la mia esperienza non era ancora finita, dovevo ancora dare di più e vivere ancora di più, anche le sofferenze fanno parte di queste esperienze».
Fare un’esperienza a 360 gradi, insomma…
«Esatto! Così sono rimasta, anche perché pensavo che l’emergenza presto sarebbe finita e che sarei tornata a fare la vita normale a Los Angeles e avrei ripreso il mio corso di Teatro, invece poi sono rimasta nello Utah e nel Wyoming, perché avevano due case, per 4 mesi».
Cosa facevate quando uscivi la sera con gli amici? Come si divertono, come passano il tempo, come socializzano i ragazzi e le ragazze negli Stati Uniti?
«Sono simpatici, certo devi trovare le persone giuste: non è così semplice come a New York, dove ci sono persone di tutti i tipi, però ti senti a tuo agio perché non conosci nessuno, quindi ti senti libera di essere qualsiasi persona tu voglia essere, anche solo per una serata… Gli amici mi facevano sentire a mio agio, a volte mi sono trovata a parlare con delle persone appena conosciute, eppure sono state conversazioni molto importanti, cioè condivisioni di argomenti di un certo spessore, anche se poi non li ho più visti».
Raccontaci un po’ la tua esperienza teatrale…
«Ho avuto sei settimane libere perché i bambini andavano ad un campo estivo, ho avuto la fortuna di entrare a far parte di un Conservatorio a New York, a Broadway, un Conservatorio teatrale, non musicale, quindi una Scuola di Teatro. È un corso intensivo di sei settimane con lezioni che durano tutto il giorno…».
Full immersion, quindi…
«Sì, lì ho cominciato a fare amicizia e a studiare un metodo importante nella recitazione, soprattutto quella americana che riguarda la “realtà del fare”, quindi un tipo di recitazione molto autentica, molto realistica. Uno stile molto più naturale rispetto a quello italiano, che è più aulico, più declamatorio. Poi ho avuto la fortuna di partecipare a due cortometraggi a Seattle, dei quali uno ha partecipato ad un Festival di film indipendenti e mi sono vista per la prima volta sul grande schermo. È stata un’esperienza particolarmente bella. Appena sono arrivata a Los Angeles ho iniziato a fare un corso di Teatro normale; dovevo studiare delle scene e portarle sul palco con persone che non conoscevo. Purtroppo ho vissuto solo l’inizio perché poi sono partita. Può darsi che avrebbe potuto darmi tanto, ma purtroppo è stata interrotta, però ho cercato di prendere il più possibile, di far conoscenze e amicizia, anche se le persone di là erano un po’ più restie: avevano già la loro vita, il loro gruppo, Però mi sono anche divertita. Quando sono arrivata là ho trovato il sole, dopo 4 mesi di Seattle, come un sole spento. Una volta mi sono seduta su una collinetta sotto la scritta di Hollywood con il sole che tramontava e mi sono quasi messa a piangere. Non avevo mai provato una felicità che provenisse da me e io da questa esperienza cercavo proprio questo, emozioni che provenissero da me stessa, non dagli altri, non perché sto con gli altri».
Quindi: emozioni forti, felicità, un’esperienza culturale, linguistica, teatrale… un’esperienza a tutto tondo che mi sembra di capire ti abbia arricchito molto. Qual è un episodio, un aneddoto, un piccolo gesto che ti è rimasto nel cuore di questi mesi?
«Credo di aver acquisito tanta, tanta energia, tanta voglia di fare e anche tante altre idee, oltre a motivazione, ispirazione dalle persone, dai posti dalle cose che vedevo in giro… Anche lo stare in Metro mi arricchiva culturalmente, perché è lo stare con le persone che ti arricchisce, secondo me e poi anche rifletterci a casa… la solitudine: io ho vissuto anche tanto sola».
Si può dire che le esperienze che facevi le metabolizzavi quando eri da sola, nel silenzio di camera tua e nei momenti di solitudine…
«Anche, anche… già a Guasticce scrivevo, poi ho iniziato a raccontare in un diario le esperienze ed è come se il diario fosse stato il mio migliore amico. Spero di esser cresciuta. Le persone mi dicono che sono cambiata, che sono esplosa, però lo devo capire meglio. Questa esperienza mi ha lasciato un’energia che devo impiegare in questo momento, per il mio futuro».
Senza aspettare, rischiando che svanisca.
«Frequentando magari persone sbagliate, non voglio che l’energia venga sprecata, voglio impiegarla in cosa voglio fare».
C’è un episodio con gli amici o con le famiglie che ti è rimasto particolarmente impresso?
«Una volta mi sveglio per andare a teatro, per la prima volta dopo mesi e mesi, il teatro si trovava a Broadway e mi sono sentita appartenente alla città ed è difficile sentirsi appartenente a New York, perché è una città dove vai e vieni».
Un po’ spersonalizzante…
«Sì, però, è paradossale… perché ti personalizza proprio, ti dà proprio una personalità. Mi sono sentita veramente appartenente a quella giungla di matti, però paradisiaca, a quel mondo che non sta né in cielo né in terra».
Idee per impiegare nel futuro queste energie di cui parlavi? Pensi di tornare, di replicare questa esperienza?
«Penso di tornare, però prima voglio provare a farcela in Italia, con la mia lingua, potendomi esprimere al cento per cento, Voglio fare Teatro nella mia vita e questa esperienza mi ha confermato che è questo che voglio fare. A settembre ho delle audizioni per entrare in alcune scuole pubbliche, che sono importanti perché se ci entri ti possono avvicinare al mondo dello spettacolo, se non addirittura entrarci. Quindi voglio fare l’attrice; si può dire?».
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