Si è tenuto nei giorni tra il 28 e il 30 gennaio il convegno interdisciplinare e interreligioso dedicato alla speranza, ospitato nel Vescovado di Livorno. Per tre intense serate, accademici, ricercatori e figure di spicco hanno sviluppato un’articolata riflessione sul tema portante del Giubileo 2025, esplorandone le molteplici declinazioni in ambito scientifico, filosofico e teologico.
L’incontro inaugurale, alla presenza della neuropsichiatra suor Francesca Liboni, del professor Adriano Fabris, docente di filosofia all’Università di Pisa, e di Franco Nembrini, insegnante ed educatore, è stato aperto con la citazione di un passo tratto dal XVI canto del Purgatorio: «Lo cielo i vostri movimenti inizia;/ non dico tutti, ma posto ch’i’ ‘l dica,/ lume v’è dato a bene e a malizia», sottolineando il valore della libertà come strumento per affrancarsi dai condizionamenti del tempo presente e riconoscere nella speranza la certezza della bontà inscritta nel cuore umano.

La serata conclusiva, dal titolo “Una luce in fondo al tunnel”, è stata dedicata a una disamina della speranza nella prospettiva della vita ultraterrena. Tra i relatori: la dottoressa suor Costanza Galli, responsabile del reparto hospice di Livorno, il professor Franco Nocchi, criminologo e docente di psicologia all’Università di Pisa, Antonio Cucinello, islamista e islamologo presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, padre Germano Marani, docente presso il Pontificio Istituto Orientale. Gli interventi hanno delineato prospettive complementari, mettendo in luce come la dimensione ultraterrena possa trasformare profondamente il modo di vivere il presente.

Suor Costanza Galli, attraverso l’esperienza nel reparto di cure palliative, ha riflettuto sul legame tra il tema della speranza e la ricerca di un senso per i malati terminali. «Quando la malattia sconvolge l’esistenza», ha affermato, «ritrovare un significato nel proprio vissuto permette alla speranza di divenire una risposta concreta». Il lavoro nelle cure palliative non si limita, infatti, alla mitigazione del dolore fisico, ma si fonda soprattutto sulla vicinanza ai pazienti, affinché possano riconoscersi parte di un cammino che non si esaurisce con la malattia, recuperando la propria dimensione relazionale ed esistenziale.
«Nella nostra esperienza – ha proseguito – vediamo che la fase terminale non cambia radicalmente l’esistenza: chi ha coltivato un percorso spirituale, o, anche laicamente, chi ha vissuto la relazione con gli altri in un atteggiamento di dono e non di possesso vorace, spesso trova, persino nel dramma della malattia, un serenità profonda, derivante dall’amore ricevuto e donato».

A testimonianza di questa ricerca di significato, suor Costanza ha rievocato le numerose esperienze vissute nell’hospice: matrimoni celebrati nel fine vita, lettere e lasciti morali con cui i pazienti affidano ai propri cari l’ultima espressione di sé. «Il bisogno di portare a compimento il proprio vissuto si manifesta in molte forme ed emerge spesso un lato che la persona non avrebbe rivelato in altre circostanze. In quei momenti sentirsi compresi, accettati e non un peso, ma ancora parte viva di qualcosa, può fare la differenza».
Tra i temi affrontati, anche la questione della fine vita. In merito alle varie proposte di legge, suor Costanza ha sottolineato l’importanza di garantire il massimo supporto possibile affinché la dignità sia tutelata fino all’ultimo istante. Ha inoltre posto l’accento sulla necessità di scongiurare il rischio che certe scelte diventino soluzioni dettate da lacune nel sistema sanitario, ribadendo la centralità di un’assistenza adeguata, affinché nessuno si trovi costretto a considerare la morte come unica via d’uscita.

Sul piano della riflessione psicologica il professore Franco Nocchi ha tracciato un parallelo con l’esperienza del musicista Nick Beccattini, che nei suoi scritti ha raccontato con straordinaria forza interiore il confronto con la malattia, sottolineando la necessità di non nascondere i limiti e le fragilità. Citando Viktor Frankl, psichiatra sopravvissuto ai campi di concentramento nazisti, ha ricordato come «chi ha un perché per vivere, sopporta quasi ogni come». La sofferenza, anziché annientare, può diventare una spinta per riconoscere il valore della vita anche nelle sue prove più dure. In questa prospettiva la speranza non è un rifugio illusorio ma una dimensione concreta che consente di attraversare il dolore senza esserne sopraffatti. Prepararsi alla morte non significa negare la vita, bensì imparare a viverla in pienezza. Eppure, la società contemporanea sembra rifiutare il confronto con il limite e la sofferenza, alimentando l’illusione di un’esistenza esente dalla fragilità. Questa rimozione della finitezza ha ripercussioni non solo sul fine vita, ma anche sul modo con cui affrontiamo l’esistenza stessa.

Un’ulteriore chiave interpretativa è stata offerta dal professor Germano Marani, il quale ha illustrato la visione dell’escatologia ortodossa, fondata sull’idea di «ricordare il futuro». Questa prospettiva rovescia la linearità temporale: la speranza non è una proiezione incerta, ma una promessa già operante nel presente. Per la teologia orientale, l’escatologia non è un orizzonte lontano bensì una realtà che agisce nell’oggi. Il futuro non è un tempo astratto e distante: «Le ultime cose stanno già agendo adesso, anche se non ce ne rendiamo conto», ha spiegato Marani, «perché protologia ed escatologia sono intimamente connesse: il passato si illumina alla luce di ciò che sarà, e il futuro custodisce la promessa che vivifica il presente.

Se il tempo non viene sacralizzato dall’irruzione dell’Eterno, diventa più difficile ritrovare una visione positiva della vita» ha concluso, ricollegandosi al messaggio centrale del Giubileo, “Spes non confundit”, la speranza che non delude.
Le riflessioni scaturite dal convegno hanno messo in evidenza come la speranza non sia una proiezione illusoria, bensì una forza trasformativa che attraversa l’esistenza umana e la illumina di senso. L’esperienza del dolore e della finitezza, lungi dall’annichilire l’individuo, può diventare lo spazio in cui maturano le più profonde domande sull’essere e sul trascendente. Come afferma Dante nel Paradiso, «Spene […] è uno attender certo / de la gloria futura, il qual produce / grazia divina e precedente merto».