Giovanni Ughi

Guasticce Una preziosa testimonianza sull’inferno dei campi di concentramento tedeschi, proveniente dal territorio colligiano. Nel 72° anniversario dalla liberazione del campo di sterminio di Auschwitz il guasticciano Giovanni Ughi racconta attraverso le pagine di Collenews.it la storia della sua prigionia (dalla cattura avvenuta ad Alessandria fino al suo arrivo a Guasticce, luogo dove si erano rifugiati i suoi familiari). In molti hanno reso omaggio a Ughi. L’uomo ha infatti ricevuto alcune onorificenze da personaggi di spicco della politica italiana come il presidente emerito della Repubblica Sandro Pertini e l’ex ministro e presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini.

 

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La cattura e il periodo di prigionia 

«La mia esperienza da prigioniero – così Ughi – incominciò Il 9 settembre del 1943, il giorno dopo l’armistizio. Fui catturato dai tedeschi ad Alessandria, che ci portarono subito alla fabbrica del Borsalino ed in seguito a Cittadella. Dopo qualche giorno fummo nuovamente spostati alla caserma di Gradara, vicino a Mantova dove rimanemmo per circa 4 giorni. Da li poi fummo portati alla stazione e caricati su dei carri per bestiame. Una volta rinchiusi partimmo alla volta della Germania. Ricordo che ci furono dati alcuni viveri per le giornate di lunedì e martedì, ma non bastarono. Quando arrivammo in Germania cominciò il vero calvario dei campi di concentramento. Una volta arrivati nel campo – racconta ancora Ughi – venimmo subito a contatto con quelli che sarebbero stati i nostri “datori di lavoro”. Il mio primo impiego fu quello di contadino. Nei primi periodi di permanenza presso il campo ci portavano infatti a tagliare le barbabietole nei campi. Ricordo che i tedeschi non ammettevano errori, se sbagliavi infatti erano calci o frustate. Presso il primo campo non sono stato molto, circa tre o quattro mesi. Era molto raro infatti rimanere per lungo tempo nel solito posto, in quanto i vari campi, di cui non ricordo neanche più il nome, si giravano in base al bisogno di manodopera di determinate zone. Dopo la prima esperienza nel campo infatti ricordo che venne un soldato che mi portò via e che mi fece trasferire in un penitenziario dove condividevo una cella di 3 metri per 2 con altre tre persone. Fu uno dei momenti più duri della mia prigionia, sia per le condizioni in cui eravamo costretti a vivere ma anche perchè la vita la dentro era sempre uguale».
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I cimeli in casa Ughi, fra cui l’omaggio del presidente Pertini

«Ma anche i tempi successivi non furono migliori. Gli ultimi otto mesi della mia prigionia – ha continuato il guasticciano – li ho passati in un campo a fare il boscaiolo. Ogni giorno bisognava abbattere almeno cinque abeti di grosse dimensioni per coppia. Le condizioni nelle quali dovevamo lavorare anche lì erano terribili: ad un certo punto infatti ricordo che rimasi senza scarpe e calzini e mi dettero degli zoccoli di legno, tipo quelli olandesi, che ho usato per mesi e mesi lavorando con i piedi praticamente immersi nella neve poiché, lavoravamo a circa 800 metri di altezza sul livello del mare con temperature che in inverno spesso toccavano i 15 gradi sotto zero. I turni di lavoro duravano circa 12 ore al giorno e noi eravamo costretti a lavorare mezzi nudi, con indumenti non adeguati al rigido clima tedesco e a mangiare una volta al giorno con un litro di zuppa di barbabietole e 250 grammi di pane con un po’ di margarina o di melassa».

La liberazione degli americani e la fuga verso l’Italia

«Quando poi gli americani incominciarono a conquistare l’Europa – continua il suo racconto Ughi – ricordo che i tedeschi ci spostavano continuamente per impedire che gli americani ci liberassero. Un giorno ci ritrovammo completamente da soli perché i tedeschi, circondati dagli americani, si erano dati alla fuga. Poco dopo, infatti, in una piazza trovammo i carri armati americani. Fummo subito accolti dai soldati che ci fornirono assistenza e ci diedero da mangiare. In seguito io e altri tre ragazzi di Livorno decidemmo di venir via. Fu così che, sottratte quattro biciclette ai tedeschi, da vicino Berlino partimmo alla volta dell’Italia. A Norimberga fummo fermati da alcuni soldati americani che volevano trattenerci perché ci consideravano loro prigionieri. Fortunatamente trovammo un ufficiale di origine italiana che ci dette un lascia passare per arrivare al Brennero. Arrivati al confine però fummo rimandati indietro perché non era possibile passarlo singolarmente ma solo mediante mezzi in colonna. Così tornammo indietro e a Innsbruck fummo scortati dagli Americani con una colonna di camion fino a Bolzano».

Il ritorno a Livorno e l’incontro con la famiglia

«Da Bolzano – conclude il suo racconto il reduce guasticciano – in treno arrivammo fino a Firenze. Arrivati nel capoluogo toscano, appresa la notizia che volevano metterci in quarantena, decidemmo di fuggire e di tornare verso Livorno in autonomia. Ricordo come se fosse ieri che quando arrivai in piazza Grande a Livorno non c’era più nulla. Io ero completamente spaesato, non sapevo dove andare e sopratutto che fine avesse fatto la mia famiglia. Mio padre aveva due bar-pasticceria a Livorno e un suo cliente mi riconobbe e mi disse che i miei familiari stavano bene e che stavano a Guasticce. Così, mi accompagnò fino a Stagno dove trovai tre donne. Gli chiesi quanta strada c’era da fare per arrivare a Guasticce, dato che non c’ero mai stato. Queste vollero sapere chi ero e una volta fatto il mio nome dissero che conoscevano mio padre, e che a breve sarebbe passato da Stagno in quanto poco tempo prima era partito in motocicletta per andare a Livorno. Così rimasi in compagnia di queste signore, che mi accolsero in casa loro fino a quando mio padre non venne fermato da un signore che abitava nella stessa zona, che gli disse che ero ritornato e che mi trovavo a Stagno. Appresa la notizia, mio padre, lasciò subito la motocicletta e corse ad abbracciarmi. Ricordo che mi stringeva, mi tirava i capelli come se quasi non gli sembrasse vero che fossi lì con lui. In seguito ci incamminammo verso Guasticce. Mio padre mi scaricò in cima al paese perchè voleva dire a mia mamma in tutta tranquillità del mio ritorno. Lei soffriva di cuore e mio padre volle fare così per evitare che vedendomi le venisse un colpo. Così mi incamminai a piedi, ma una volta arrivato in paese potei riabbracciare mia madre e mia sorella, che ad un primo impatto, dopo anni di assenza stentavo quasi a riconoscere poiché l’ultima volta l’avevo vista era molto piccola. Ricordo ancora che per me fu una gioia immensa, indescrivibile».

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