
Alberto Calza Bini, Il Fosso Reale di Livorno (1908)
Alla Pinacoteca Comunale Carlo Servolini di Collesalvetti si è inaugurata la grande mostra Alberto Calza Bini pittore e architetto tra Roma e Livorno. Lo spirito dell’arte classica, la tentazione del Liberty, la sfida del Divisionismo, a cura di Francesca Cagianelli e promossa dal Comune di Collesalvetti con il contributo della Fondazione Livorno.
L’esposizione, visitabile fino al 19 marzo 2026, riporta alla luce la produzione pittorica e incisoria di un artista noto finora quasi esclusivamente come architetto e urbanista. Dipinti e acqueforti rimasti per decenni nell’ombra vengono ora ricomposti in un percorso che dall’esperienza formativa romana ai soggiorni livornesi, svela il dialogo continuo dell’artista fra pratica pittorica e attività architettonica.
A Collenews, la curatrice Francesca Cagianelli racconta il senso e la portata di questa riscoperta.
La curatrice Francesca Cagianelli
La mostra appena inaugurata alla Pinacoteca “Carlo Servolini” di Collesalvetti segna il primo, autentico affondo sulla produzione pittorica di Alberto Calza Bini. Qual è, secondo lei, il valore storico e culturale di questa riscoperta?
«È una riscoperta fondamentale per la storia dell’arte italiana del Novecento. Calza Bini è sempre stato ricordato come architetto e urbanista di spicco, docente e teorico attivo tra gli anni Venti e Trenta, ma la sua dimensione pittorica era rimasta nell’ombra. Da circa vent’anni, a partire dalle mie ricerche sul Caffè Bardi, ho potuto restituire alla critica il suo ruolo nella città labronica nei primi decenni del secolo scorso, quando insegnava all’Istituto tecnico di Livorno e dialogava con alcuni dei protagonisti più significativi del tempo.
Il contributo è dunque duplice: da un lato si restituisce allo studio la sua attività pittorica e incisoria, maturata dopo la formazione all’Accademia di Belle Arti di Roma, dall’altro viene chiarito come la sua esperienza livornese, nutrita da un fitto intreccio di relazioni artistiche e intellettuali, sia stata decisiva per l’evoluzione del suo linguaggio figurativo. Sul piano critico, la mostra evidenzia aspetti del suo percorso divisionista finora non considerati: rapporti con protagonisti del movimento, un’accentuata vena simbolista e una pratica incisoria di rilievo. È rilevante anche il fatto che il suo nome non compaia negli archivi del Divisionismo curati da Teresa Fiore: riconoscerlo oggi significa correggere una lacuna documentaria e restituire al panorama del Divisionismo una figura di importanza non marginale.
Ma non solo: la mostra illumina anche la sua attività di incisore. A Livorno, Gastone Razzaguta lo definì “acquafortista in movimento”, un’espressione che allude apertamente alle sue riflessioni sul tema del dinamismo, non inteso come adesione al futurismo in senso stretto, ma come capacità di tradurre la visione in ritmi di accelerazione».
La scelta di partire da Livorno non è casuale. In che modo la città e il suo paesaggio hanno influenzato la poetica dell’artista?
«In modo decisivo. Lo si percepisce già nella prima sezione della mostra, significativamente intitolata L’anima vesperale di Alberto Calza Bini: una pittura in cui il Divisionismo si colora di un’aura simbolista, quasi pascoliana. Livorno rappresenta il luogo in cui la sua pittura si trasforma. La mostra si addentra progressivamente verso vedute del Tirreno che sembrano un inno all’azzurro, quasi spirituale, della costa labronica.
Lo stesso Calza Bini dichiarò più volte, in articoli apparsi su Il Telegrafo e sul Nuovo Giornale, di essere rimasto stregato dai monumenti livornesi. La Fortezza Vecchia, a cui dedicò due lunghi contributi, divenne per lui un emblema del rapporto fra memoria e modernità. In quelle pagine emerge un artista capace di coniugare il rigore dello storico, quasi dell’archeologo, con la visione del progettista, capace di comprendere la materia antica e insieme di farsene tutore, tanto da proporre la creazione di un Museo Civico all’interno della stessa Fortezza. È un documento straordinario della sua visione colta e modernissima del rapporto tra arte e memoria urbana, e fa di Livorno non solo un soggetto pittorico dell’artista, ma l’interlocutore che condizionò la sua poetica e la sua visione intellettuale».
Nel titolo compaiono tre direttrici, Classicismo, Liberty e Divisionismo, che appartengono a stagioni estetiche diverse. Come convivono e si traducono nelle sue opere?
«Calza Cini è una personalità complessa, e non a caso per oltre mezzo secolo è rimasto compreso solo a metà. Una figura dimidiata, evidente persino nel doppio cognome. Infatti, fino al 1924, quando con Regio decreto Alberto Calza aggiunse il cognome materno, Bini, egli firmava le proprie pitture e acqueforti solo come “Alberto Calza”. Pittore e architetto dunque: due anime che fino ad oggi non erano ancora mai state condensate dalla critica d’arte in un unico personaggio.
Questa mostra riunisce finalmente le due metà, restituendo una identità complessa e multiforme: se fino ad ora oggi Calza Bini era noto come urbanista e architetto della Roma del ventennio, oggi si scopre appunto anche pittore, teorico, acquafortista, docente, intellettuale e raffinato cultore dell’arte classica. Il classicismo di Calza Bini affonda nella formazione accademica, ma non si traduce in un atteggiamento pedissequo: è, piuttosto, un esercizio di modernità. Nel 1908, ad esempio — e anche questa è una scoperta della mostra — dedica una lunga relazione ai monumenti pisani, rivelando non solo un pittore colto, capace di analizzare la bellezza dell’antico, ma anche un intellettuale in grado di assumerla come fonte di rinnovamento, in una prospettiva di modernità quasi esasperata. Anche il Liberty rappresenta per lui la modernità che esplode senza mai rinnegare la tradizione: un equilibrio che anticipa la compostezza del Calza Bini architetto degli anni Venti e Trenta».
Molte opere erano rimaste a lungo inedite. Qual è stato il percorso di recupero e di studio che ha preceduto l’esposizione?
«È stato un lavoro di vent’anni. Tutto è iniziato con la mia monografia su Lorenzo Cecchi, collega di Calza Bini all’Istituto tecnico di Livorno. Da lì è nata una lunga indagine che mi ha condotto a rintracciare gli eredi, catalogare e ordinare un corpus vastissimo di opere mai esposte.
Il lavoro ha riguardato due raccolte principali, tra Calvi dell’Umbria e Roma, rimaste per decenni nascoste in dimore private. Da esse abbiamo selezionato settanta opere, tutte inedite, suddivise in quattro sezioni: due dedicate all’evoluzione artistica di Calza Bini, dall’anima vesperale al dinamismo secessionista, e due al dialogo umano e creativo con la moglie, Irene Gilli.
La vicenda di Irene è essa stessa una scoperta: pittrice e acquafortista, fu praticamente rimossa dalla memoria artistica e persino dai documenti ufficiali. Recuperare anche la sua figura significa riscrivere un capitolo di storia culturale e di emancipazione femminile».
Quale immagine di Alberto Calza Bini spera che il pubblico porti con sé uscendo dalla Pinacoteca Servolini?
«Vorrei che ne emergesse l’immagine di un intellettuale completo. Se dovessi decidere che cosa mi ha guidato alla riscoperta di Calza bini, noto in tutta Italia e non solo in Italia, come grande protagonista dell’architettura e dell’urbanistica, è la consapevolezza di una mente che non si è mai lasciata imprigionare da un solo linguaggio, ma ha saputo coniugare architettura, pittura e riflessione teorica in un’idea alta di cultura.
La mostra restituisce unità a una personalità che la storia aveva diviso: oggi Calza Bini torna ad apparire nella sua interezza, come artista e come pensatore, animato da una profonda coscienza storica e da un amore inesauribile per la tradizione classica, che non rinnegò mai, nemmeno nelle fasi di più intensa sperimentazione.
In questo senso, Calza Bini fu un autentico protagonista dell’intellighenzia italiana del primo Novecento: un uomo capace di tenere insieme ragione e visione, rigore e incanto».
In foto da sx:
Elisa Salvadori,
Luciano Barsotti,
Francesca Cagianelli, Vanessa Carli, Alessandra Casini,
Alessandro Merlo, Dario Matteoni
La mostra, accompagnata da un catalogo edito da Silvana Editoriale, è visitabile alla Pinacoteca “Carlo Servolini” di Collesalvetti il giovedì, sabato e domenica dalle 15.30 alle 18.30. L’ingresso è gratuito.

