Collesalvetti 

Oggi, sabato 19 luglio, allle ore 17:00, terzo appuntamento con il Calendario Culturale Estate 2025, dal titolo ÀKANTHOS, promosso dal Comune di Collesalvetti, ideato e curato da Francesca Cagianelli con Stefano Andres e Emanuele Bardazzi, nel 140° di Gino Mazzanti, in occasione dell’importante Mostra L’ora delle Lampade. Dialoghi di Aleardo Kutufà tra estetismo dannunziano, fantasmi crepuscolari e sogno del Medioevo, promossa dal Comune di Collesalvetti, ideata e curata da Francesca Cagianelli, con Stefano Andres e Emanuele Bardazzi, in programma alla Pinacoteca Comunale “Carlo Servolini” dal 24 aprile al 7 agosto 2025 (Complesso di Villa Carmignani, Collesalvetti, via Garibaldi, 79 / località Poggio Palloneingresso gratuito – tutti i giovedì, ore 15.30-18.30; anche su prenotazione per piccoli gruppi; info: 0586 980227-3926025703).

Fortemente voluto come diorama di novità nazionali e internazionali, destinato a impreziosire indelebilmente una stagione livornese finora troppo univocamente inquadrata in rapporto a raggruppamenti, tensioni e nostalgie municipalistiche, tale Calendario si configura come una vera e propria fucina di curiosità e futuribili linee-guida per un ripensamento radicale della storia dell’arte del nostro Novecento.

Non è un caso che il team scientifico, costituito da Francesca Cagianelli con Stefano Andres ed Emanuele Bardazzi, abbia individuato nell’edizione critica del volume Benvenuto Benvenuti. Un colloquio di Aleardo Kutufà d’Atene (Lucca 1944), una priorità scientifica talmente preziosa da coronare le idealità strategiche della mostra, proprio in quanto rara e sconosciuta testimonianza di una rilettura del divisionismo benvenutiano sull’onda non solo del magistero di Vittore Grubicy de Dragon, ma anche di predilezioni critiche e filosofiche che dall’estetismo di Angelo Conti e di Gabriele d’Annunzio si contaminano costantemente con le teorie schopenhaueriane e nietzschiane, senza tralasciare tutta una impalcatura teologica che dai Comandamenti di Mosé, il Corano, la Baghavad Gita, la Somma di Tommaso d’Aquino giunge fino alla Commedia dantesca, il Paradiso Perduto di Milton, il Giudizio Universale dell’Orcagna e di Michelangelo e le sinfonie di Beethoven.

Un testo sapido, eccentrico, inaspettato, emozionante, comunque di sconcertante trasversalità storico-critica, ritenuto quindi fondamentale in questa sede per rileggere nel XXI secolo artisti di estrazione livornese da troppo tempo sottratti a un’analisi ragionata che ne soppesasse l’effettiva statura e l’entità dell’aggiornamento in direzione internazionale, ma anche per riconfigurare una più aggiornata e articolata bibliografia relativa al Novecento labronico, in grado di diramarne a un ampio pubblico coordinate finalmente esaustive rispetto alle ormai usurate congetture di filiazione esegetica neofattoriana.

La 3° Puntata, prevista sabato 19 luglio 2025, ore 17.00, vedrà dunque l’importante evento della presentazione dell’edizione critica del volume Benvenuto Benvenuti. Un colloquio di Aleardo Kutufà d’Atene (Lippi Editore, Lucca 1944), dedicato a Giuseppe Argentieri.

Intervengono: Stefano Andres, dottore di ricerca in Storia del diritto presso l’Università di Milano, Facoltà di GiurisprudenzaEmanuele Bardazzi, storico dell’arte ed esperto di grafica tra Ottocento e Novecento; Francesca Cagianelli, storica dell’arte, conservatrice della Pinacoteca Comunale Carlo Servolini.

Fortemente voluta come omaggio a quella temperie estetizzante, di impronta dannunziana, che rappresenta forse il più autentico emblema culturale della mostra, tale edizione critica intende riproporre una stagione culturale indiscutibilmente unica nella Livorno primonovecentesca, dal Caffè Bardi al Gruppo Labronico, nell’ambito della quale la lezione divisionista divulgata tra le fila del cenacolo antignanese da Benvenuto Benvenuti, con la suprema regia di Vittore Grubicy de Dragon, assurge a piattaforma ideale, commista di speculazioni filosofiche afferenti a Nietzsche e Schopenhauer, ma anche e soprattutto alle teorie ruskiniane.

Trapelano fin dalle righe dell’ispirata Prefazione al volume, datata “Lucca, aprile del 1944”, i percorsi intricati, quanto atavici, sottesi all’incalzante dialogo instaurato con il collega Benvenuto Benvenuti, se è vero che in una notte di tre anni addietro, quindi databile al 1941, Kutufà, “nel salone-biblioteca dominato dai ritratti e dall’armi de’ miei avi”, si lasciava sedurre da una sentenza enunciata con non dissimili espressioni da John Ruskin e da Arthur Schopenhauer, e riproposta in altri termini da Oscar Wilde, secondo cui “innanzi un’opera d’arte si deve star come innanzi un sovrano: si deve cioè aspettare ch’essa parli per prima”.

Imperativamente distanziatosi dalla metodologia critica di Hippolyte Taine e Charles Augustin de Sainte-Beuve, responsabili a suo avviso di un approccio eccessivamente anatomico al misterioso fenomeno della genesi artistica, Kutufà rivendica l’intenzione di offrire nelle pagine del suo Colloquio con Benvenuto Benvenuti “l’equivalente intuitivo dell’opera d’arte”.

Emblematica dunque la conclusione dell’assunto enunciato nella Prefazione, coincidente con una professione di fede nelle enunciazioni teoriche di Walter Pater, secondo cui tutte le arti aspirano alla musica, in omaggio alla quale anche le pagine del suo Colloquio appaiono funzionali alla trasformazione delle “trame del pensiero e del sogno” in vere e proprie polifonie, tali da evocare certe musiche celesti “che l’iniziato Platone udiva palpitare nel sistema Universale”.

 

A proposito della mostra

È stata inaugurata giovedì 24 aprile la mostra dal titolo “L’ora delle Lampade. Dialoghi di Aleardo Kutufà tra estetismo dannunziano, fantasmi crepuscolari e sogno del Medioevo”, promossa dal Comune di Collesalvetti, ideata e curata da Francesca Cagianelli, con Stefano Andres e Emanuele Bardazzi, in programma alla Pinacoteca Comunale Carlo Servolini fino al 7 agosto 2025 (Complesso di Villa Carmignani, Collesalvetti, via Garibaldi, 79 / località Poggio Pallone – ingresso gratuito – tutti i giovedì, ore 15.30-18.30; anche su prenotazione per piccoli gruppi;

La mostra propone un inedito percorso nella Livorno primonovecentesca, ordito sulle tracce della ancora insondata produzione artistica, critica e letteraria di Aleardo Kutufà (Livorno, 9 novembre 1891- 28 febbraio 1972), personalità di eccezione nell’ambito del circuito simbolista cittadino, premiata anche da un consenso nazionale nella prima metà del secolo scorso, se è vero che il patriota e poeta livornese Giovanni Marradi sosteneva che i suoli libri erano “una grande rivelazione d’ingegno”; il celebre romanziere Guido da Verona, di cui fu amico, giudicava “la sua opera di alto e musicale valore”; il poeta e uomo politico Guido Mazzoni lodava “le alte qualità scrittorie”; ma anche personaggi di primissimo piano quali Gabriele d’Annunzio, Benedetto Croce, Arturo Graf e il compositore Arturo Toscanini espressero nei suoi confronti giudizi lusinghieri.

Tali giudizi, ampiamente positivi, sembrano messi in discussione forse solo nel volume Virtù degli artisti labronici di Gastone Razzaguta, mentre Carlo Servolini nella sua Commedia Labronica delle Belle Arti celebra, nella cosiddetta “Sfilata dei dimenticati” lo stesso Kutufà soprattutto con riferimento alla sua attività letteraria, ma anche in veste di artista poliedrico.

Nato a Livorno il 9 novembre 1891 dal Cavaliere Nicola Kutufà e dalla Marchesa Gemma Turini Del Punta, Aleardo Enrico Leopoldo Paolo rivendicherà sempre con orgoglio le proprie origini aristocratiche, coltivando nostalgicamente la memoria degli antenati e mantenendo per tutta la vita un saldo legame spirituale con l’Ellade, vagheggiando l’Oriente, greco, bizantino, turco e quello favoloso descritto nelle Mille e una notte.

Iscrittosi al Liceo classico Niccolini di Livorno, presumibilmente nel 1911 conosce Ettore Serra, con cui intreccerà una “domestichezza fraterna”, mentre pubblicherà a cura dell’editore R. Giusti di Livorno un trattato di filosofia dal titolo La Metafisica teologica, intriso di speculazioni deiste e antitradizionali. Grazie alla precocità culturale di Serra, Kutufà percorse le strade dell’estetismo, fino ad avvicinarsi alle teorie estetiche di Angelo Conti e al pensiero di Nietzsche, e condividendo l’amore per Beethoven, Wagner e Catalani, oltre che il gusto per i Primitivi e per i Preraffaelliti.

Sarà proprio Carlo Servolini, nella sua Commedia Labronica delle Belle Arti, a documentare questa straordinaria stagione culturale, celebrando Kutufà in veste di “culto poeta, letterato ed altro”, condannato a un ingiusto oblio, in quanto “imitando l’antico tanto bene, divenne creator, sì che tutt’altro che un mestierante fu”. Ne deriverà quel cenobio coordinato dallo stesso Carlo Servolini, che Gino Mazzanti rievocherà nel 1968 nei termini di una sorta di fratria (G. Mazzanti, Ricordo ventennale di un maestro. Carlo Servolini pittore e acquafortista (1876-1948), in “Le Venezie e L’Italia”, VII, 3, 1968), enucleando coordinate assolutamente inedite rispetto alla germinazione nella Livorno del Caffè Bardi di un humus simbolista, alimentato dall’estetica ruskiniana, dall’estetismo dannunziano e dal revival neogotico.

Non è un caso che proprio Gino Mazzanti pubblicasse nel 1928 quell’unicum bibliografico dal titolo Àkanthos che costituisce l’avamposto della divulgazione del verbo ruskiniano in sede labronica, e di cui in mostra sarà esposta una profetica illustrazione chiosata da una citazione dannunziana tratta da Per l’Italia degli Italiani, Discorso pronunziato in Milano dalla ringhiera del Palazzo marino la notte del 3 agosto 1922, poi in “Bottega di Poesia” (Milano 1923).

Grazie a una densissima rete di ricerche bibliografiche e al pionieristico impegno di catalogazione documentaria messa in campo da Stefano Andres nel Fondo Grubicy-Benvenuti conservato presso l’Archivio del MART (Museo di Arte Moderna e Contemporanea di Trento e Rovereto), è stato possibile ideare un percorso espositivo originale e innovativo che alterna illustrazioni, incisioni, disegni e opere pittoriche, tutte funzionali a ridisegnare, attraverso una esemplare sequenza di confronti sorprendenti e di contrappunti evocativi, la coltissima temperie critica, letteraria, filosofica ed estetica assestata da Aleardo Kutufà nella sua opera forse più ispirata e compiuta, ovvero il volume promosso da Ermanno Tallone, Benvenuto Benvenuti, Un colloquio di Aleardo Kutufà d’Atene, pubblicato a Lucca, Edizioni A. Lippi 1944, ancorando a tale percorso un prestigioso Calendario Culturale dal titolo Àkanthos, promosso dal Comune di Collesalvetti, ideato e curato da Francesca Cagianelli, con Stefano Andres e Emanuele Bardazzi, nell’ambito del quale verranno consegnate al pubblico verità biografiche e rivelazioni scientifiche destinate a ridisegnare ancora una volto il volto artistico livornese dei primi vent’anni del secolo breve, in linea con i principali rivolgimenti stilistici europei, tra Simbolismo e Art Nouveau.

Tra le decine di missive e altra documentazione concernente Aleardo Kutufà, reperite in tale Fondo spiccano un biglietto di saluti inviato dall’artista a Vittore Grubicy, presumibilmente nel 1915, quando ancora dimorava a Livorno in Piazza Carlo Alberto, senza contare le oltre 50 testimonianze epistolari intercorse con Benvenuto Benvenuti tra il 1911 e il 1951, con particolare riferimento alle vicende degli anni Quaranta, ovvero al periodo relativo alla collaborazione tra i due artisti per la redazione del Colloquio che verrà poi pubblicato nel 1944. Il materiale testimonia innanzitutto il travagliato percorso editoriale, complicato a causa della guerra in atto, e sotto il profilo filologico permette di apprezzare una serie di progetti realizzativi, ipotesi di lavoro, glosse, varianti (anche relativamente al titolo dell’opera: L’erede Spirituale Di Vittore Grubicy – L’architettura del Sogno– Benvenuto BenvenutiBenvenuto Benvenuti Pittore ArchitettoPittori Labronici. Benvenuto Benvenuti. Un colloquio di Aleardo Kutufà d’Atene) che poi non saranno contemplati nella versione finale.

A conferma infine della continuità strategica all’origine della programmazione culturale della Pinacoteca Comunale Carlo Servolini, proseguirà, anche in quest’ultima mostra, il dialogo con Raoul Dal Molin Ferenzona, visto che Aleardo Kutufà ne fu ammiratore e collaboratore.

Una silloge di rare incisioni di Raoul Dal Molin Ferenzona, che rinnovano l’attenzione per il protagonista della precedente mostra di successo Enchiridion notturno, oggetto anche di notevoli recensioni critiche – cortesemente concesse in quest’occasione da Emanuele Bardazzi – raccoglie tematiche riconducibili a “misteri conventuali” avvolti di languido misticismo e di sensualismo religioso, pienamente in linea con la poetica crepuscolare maturata dall’artista a Roma attraverso la frequentazione del cenacolo letterario dell’amico fraterno Sergio Corazzini. Appartengono in buona parte al cosiddetto periodo “purista” di Ferenzona nel quale, attraverso la puntasecca e la punta di diamante otteneva un segno distillato, sottile e a tratti evanescente per delineare figure monastiche prevalentemente femminili pervase di enigmatica indecifrabilità, con evidenti riferimenti ai volti sfingei dell’artista belga Fernand Khnopff, del quale è esposta a titolo di confronto la puntasecca Un voile.

La mostra offre dunque un inedito e articolato percorso, quindi, anche di quella eccezionale congiuntura del crepuscolarismo romano, abbeveratosi ampiamente alla letteratura poetica del Simbolismo belga, che aveva da tempo eletto la malinconia silente dei chiostri e dei conventi a suggestiva fonte ispiratrice, a partire dal romanzo Bruge-La-Morte di Georges Rodenbach, da cui trasse spunto anche Georges de Feure (pseudonimo di Georges Joseph van Sluijters), nato a Parigi da padre olandese e madre belga, nell’album Bruges mystique et sensuelle eseguito nel 1899, del quale sono esposte due litografie (La Canal e Le Marché aux puces) unitamente a un soggetto analogo pubblicato in Les Maîtres de l’affiche. De Feure colse dai libri dello scrittore belga (non solo Bruges-La-Morte ma anche il successivo romanzo Le Carillonneur) la doppia anima sensuale e sognante di Bruges ove si intrecciavano misticismo e amore passionale.

In una singolare acquaforte di Bona Ceccherelli, allieva della scuola d’incisione fiorentina diretta dall’umbro Celestino Celestini, si possono ancora avvertire a diversi anni di distanza certi echi della suite defeuriana nella processione di beghine verso una chiesa surreale che richiama a sua volta le architetture geometrizzanti dello stesso Celestini, per un breve periodo aiuto scenografo di Edward Gordon Craig al teatro Goldoni di Firenze.

Ed ecco il caso di Umberto Prencipe, che nel 1905 si era ritirato in completa solitudine a Orvieto, trovando nelle atmosfere claustrali, deserte e notturne della città umbra temi d’emozione letteraria che rievocavano la città morta di Rodenbach (in mostra l’acquaforte Ora triste). Lì fu raggiunto dall’amico Ferenzona che aveva visitato Bruges nel 1906, rievocandola nella poesia Brugge e dedicandogli successivamente un’acquaforte oggi esposta a Collesalvetti.

Emblematica anche la presenza in mostra dell’acquatinta a colori di Mélanie Germaine Tailleur, che riprende fedelmente il dipinto di Khnopff, Souvenir de Bruges. L’entrée du Béguinage, caratterizzata dalla stessa inquadratura utilizzata dall’artista per il frontespizio del romanzo di Rodenbach.

Ispirate alle poesie di Émile Verhaeren, altro scrittore di culto tra i crepuscolari romani, sono alcune litografie di Constant Montald, Fernand Khnopff, René Janssens, Amedée Lynen e Georges Baltus, eseguite in occasione di una conferenza in onore del celebre letterato e raccolte in un numero speciale della rivista belga “Le Musée du Livre” del 1918.

Due soggetti appartenenti alla stagione simbolista e rosacrociana dell’artista francese Marcel-Lenoir (pseudonimo di Jules Oury) raffigurano l’apparizione fantasmatica di un volto femminile scaturita dal pensiero di due saggi in abito monacale di fronte a un tavolo illuminato dalle fiammelle di una lampada (La Pensée) e, inoltre, un maestro xilografo simile a un vecchio mago seduto su una cattedra lignea scolpita con simboli arcani all’interno di un atelier in stile medievale, “ciseleur des son rêves avec ses doigts subtils” davanti a un blocco da intagliare con i bulini (Le graveur sur bois, eseguita per “L’Image”, rivista degli xilografi francesi in difesa dell’incisione originale su legno, minacciata dalle moderne tecniche riproduttive).

La 1° Sezione, dal titolo “Poemi di pietra: rinascimento spirituale ed estetico a Livorno nel segno di Ruskin”, intende indagare l’attitudine sincretistica di Aleardo Kutufà, tra predilezioni ruskiniane, pastiches neogotici e ambientazioni di gusto parnassiano.

Come viatici di elezione inaugurano il percorso espositivo due icone dell’iconografia ruskiniana, le litografie St. Mark’s. Details of the Lily Capitals e Ca’ Bernardo Mocenigo. Capital of Window shafts, cui si è inteso abbinare, con estrema suggestione di intenzionalità comparative, alcune raffinate quanto mai citate illustrazioni di Gino Mazzanti, tratte dalla sua principale opera storico-critica, Àkanthos. Breviario d’arte, con 120 illustrazioni dell’Autore, vol. I: Architettura, Raffaello Giusti, Editore – Livorno 1928, dedicata “Al Prof. Lorenzo Cecchi, architetto”, la cui “visione dei luminosi e freschi acquarelli”, realizzati in occasione delle “peregrinazioni di architetto-pittore”, da Roma, a Pompei, fino alle “città morte” della Magna Grecia e della Sicilia alcuni dei quali esposti in mostra, avrebbero imposto nella Livorno del Caffè Bardi “la venerazione per la magnifica e inesorabilmente chiusa età passata”.

Nella compilazione del volume, secondo quanto dichiarato dallo stesso Mazzanti, si intendeva collazionare brani di celebri scrittori italiani e stranieri, antichi e moderni, al punto che si intrecciano ex aequo, in 438 pagine, citazioni da Gabriele d’Annunzio, Francesco Milizia, Filippo Baldinucci, John Ruskin, Giorgio Vasari, Ugo Ojetti, Jean-François Champollion, Goethe, Maspero; ma, ed è bene sottolinearlo, all’origine di tale mirabolante esegesi architettonica, si imponeva l’inimitabile lezione del vate, la cui citazione tratta da “Per l’Italia degli Italiani”, apposta quale incipit del breviario, consacrava le ragioni estetiche dell’impresa, ricordando come “l’acanto sepolcrale era sorto da una radice occulta”.

Proprio Aleardo Kutufà con l’inedito Trittico, presentato in anteprima nella mostra colligiana, dal titolo La mia dimora distrutta. Il Palazzo delle Colonne a Livorno. 1: Il vestibolo; 2: Il salone, in vista: La stanza dei fondi oro; 3: Il salone, in vista: La sala da pranzo con Polittico; sanciva a Livorno una stagione coronata dall’estetica ruskiniana, frammista di orientalismi e goticismi, la cui miscela sincretistica giungeva a fagocitare anche la temperie esoterica insita nelle visioni architettoniche ordite da Benvenuto Benvenuti, che evocavano nella sua mente la sentenza di Ruskin secondo cui “l’architetto non deve guardare un progetto nello scheletro delle sue linee, ma concepirlo quando sarà illuminato dall’alba o abbandonato dal tramonto”.

La 2° Sezione, dal titolo “Polifonie artistiche: Laudi del Cielo, del Mare e della Terra”, in linea con le argomentazioni profilate da Aleardo Kutufà nel suo volume “Benvenuto Benvenuti. Un colloquio di Aleardo Kutufà d’Atene (Lucca, Edizioni A. Lippi 1944), dirige l’attenzione dalle architetture esoteriche del divisionista livornese alla cosiddetta “gloria del Creato”, contraddistinta, dai simboli delle Stagioni e dalle allegorie delle Età dell’esistenza, orchestrate da una musica di quell’“organo gigantesco”, funzionale alla diffusione di una vertigine  di immensità, di un sogno inespresso proteso a trasfondere in sette sinfonie i temi della pittura benvenutiana, ovvero “le sinfonie della realtà, del panteismo, del misticismo, delle voci primordiali, del mistero tragico, del sogno, della morte”.

Ed ecco riemergere il patronage culturale di Angelo Conti che investì Benvenuti di idealità consone alla sua riflessione teorica, secondo cui nelle architetture benvenutiane rifulgeva “una visione dell’Oriente”, in linea con l’essenza di tante testimonianze architettoniche toscane, che dal Battistero Fiorentino, all’interno del Duomo di Siena, riuscissero a trasmettere “un ritmo di canti orientali”.

Ne deriva quella sorta di lieta novella annunciata da Kutufà, che è “l’ora delle lampade”, formula allusiva al titolo dell’articolo di Francesco Casnati  (Szombathely26 luglio 1892 – Como24 giugno 1970), “L’ora delle lampade: a proposito del Notturno di d’Annunzio”, apparso sulla rivista “Vita e Pensiero” del 1922, dove il giornalista ungherese restituisce l’eccezionale genesi del cosiddetto “commentario delle tenebre”: in altri termini è il d’Annunzio che “in mezzo al supplizio delle visioni”, annuncia l’ennesima metamorfosi di un’anima, assurta ormai a “puro spirito in cima all’idealità del mondo”. Sono dunque “esplorazioni d’ombra” quelle apprezzate da Casnati ed evocate da Kutufà, riverberanti un nuovo stile dannunziano, equivalenti a “ritmi consueti” che evocano “musiche d’una specie tenuissima”.

Tra le icone di tale sezione dominano La Porticina di Raoul Dal Molin Ferenzona (courtesy Emanuele Bardazzi), Fontana nella villa di Carlo Servolini (Comune di Collesalvetti), Il giardino della luce, 1925 di Benvenuto Benvenuti (collezione privata); Sera, 1921 di Gino Romiti (courtesy Gianni Schiavon), e infine due monumentali testimonianze disegnative del paesaggismo cosiddetto “virgiliano” e “teocriteo”, di Benvenuto Benvenuti, Vicolo con case e Paesaggio (courtesy Galleria d’Arte Goldoni, Livorno), dove l’eterna ed emblematica alternanza tra sole ed ombra ripete l’incanto misteriosofico delle polarità del ciclo esistenziale.

La 3° Sezione dal titolo “Gli Uffizi del Vespro: Città d’incantesimo e di sogno”, propone uno struggente itinerario tra certe visioni crepuscolari di vocazione divisionista e di gestazione dannunziana, ordite da Aleardo Kutufà nella sua “Elegia delle città morte. Poema e Quadri di Aleardo kutufà d’Atene” (Livorno, Benvenuti e Cavaciocchi 1928), poste a confronto con seducenti attestazioni crepuscolari di Lorenzo Cecchi, Carlo Servolini, Benvenuto Benvenuti, Renato Natali, Raoul Dal Molin Ferenzona, e al contempo con alcune magnifiche testimonianze del simbolismo internazionale, in particolare belga.

Inaugura il percorso espositivo il Convento abbandonato di Lorenzo Cecchi, il caposcuola di tanti artisti labronici, da Benvenuto Benvenuti a Renato Natali, ma soprattutto il coordinatore della fratria comprendente anche Carlo Servolini e Gino Mazzanti, che con le sue architetture silenti, in bilico tra leggende neomedioevali e misteri conventuali, rilanciava con stilemi originali l’estetica neogotica in ambito livornese; mentre ne costituisce il fisiologico epilogo un affascinante nucleo di incisioni di Raoul Dal Molin Ferenzona, intento a trascrivere l’incanto delle città morte di eco dannunziana in notturni pervasi di estasi malinconiche e di ardore visionario.

Se La Chiesa della Valle Benedetta, 1920-1922 di Renato Natali (courtesy Galleria Corsini, Castiglioncello), riconduce gli incanti del vespro verso un registro di drammaticità espressiva compensata dal folklore labronico, la visionaria ascensionalità delle torri di San Gimignano immortalate nella xilografia di Irma Pavone Grotta, Città di sogno (1926), recitano pressochè letteralmente la tensione spirituale vibrante in quelle città avvolte da misteriosi incantesimi, evocate nei poemi di Aleardo Kutufà.

La 4° Sezione, dal titolo “Nei penetrali del mio Tempio: il cenobio degli Eletti tra misteri conventuali e formule iniziatiche”, dipana il mistero del tema conventuale e l’allegoria di un Medioevo fantastico, vagheggiati da Aleardo Kutufà, in simbiosi con alcune cerebrali visioni mistiche firmate da Raoul Dal Molin Ferenzona tra gli anni Dieci e Trenta, quali Il sacrificio, 1909 (puntasecca); Convento sotto la neve, 1910 (puntasecca); Il mistero dell’Eucarestia, 1910 (punta di diamante); Un peccato (puntasecca); Bruges, 1914 (acquaforte); La cattiva monaca, 1915 (acquaforte e puntasecca); Il volto della comunicante, 1932 (puntasecca); da considerarsi come un vero e proprio inno celebrativo ai misteri conventuali condivisi dall’artista toscano con alcuni protagonisti del simbolismo europeo.

Impreziosiscono infatti tale sezione numerose attestazioni di ambientazione claustrale, firmate dai protagonisti del filone simbolista belga, di cui appaiono in mostra splendidi esemplari incisori, in particolare di Constant Montald (Belgio 1862 – 1944), Fernand Khnopff (Grembergen-lez-Termonde, 12 settembre 1858 – Bruxelles, 12 novembre 1921), René Janssens (Belgio, 1870 – 1936), Amedée Lynen (Saint-Josse-ten-Noode, 1852–Bruxelles, 1938), Georges Baltus (Courtrai, 1874 – Overijse, 1967); Georges de Feure (Parigi, 1868 –1943), tratti da Le Cloître di Emile Verhaeren (Sint-Amands1855 – Rouen1916), poeta assurto a capostipite della scuola simbolista belga.

Tra le inattese sorprese di questa sezione spiccano alcuni capolavori incisori di Charles Doudelet – artista cult della Pinacoteca Comunale Carlo Servolini, già celebrato nel corso di due significative mostre, rispettivamente del 2020 e 2021-2022 – tra cui le maestose quanto criptiche litografie Il nocchiero che trasporta la donna sul fiume della vitaIl mio pastore mi segueContadina fiamminga d’invernoLe sante donne alla tomba – che confermano la possibilità di ricreare nella sede della Pinacoteca colligiana infiniti percorsi di fruizione, sempre tuttavia rinnovati, calibrati sull’onda d’urto di certi protagonisti del simbolismo internazionale sul nostro territorio, filtrati dall’intelligente riflessione di tutto un circuito labronico, di intendimenti ruskiniani, di infatuazioni dannunziane e di inclinazioni crepuscolari.