A distanza di 21 anni dal primissimo atto di storicizzazione dell’artista colligiano, coincidente con l’antologica a Villa Carmignani del 2001, l’Amministrazione Comunale di Collesalvetti e la Pinacoteca Comunale “Carlo Servolini“ di Collesalvetti hanno deciso di festeggiare la Fiera Paesana 2022 con una nuova monografica intitolata ad Anchise Picchi (Crespina 1 Aprile 1911 – Collesalvetti 13 Novembre 2007), concepita quale omaggio a quella cosiddetta seconda maniera individuata da Luigi Servolini come la stagione di massima eccellenza nell’ambito di un tragitto espressivo scandito da molteplici rivoli di ispirazione e di risoluzioni linguistiche.
In uno slalom tra orizzonti nazionali e costellazioni locali, la programmazione culturale della Pinacoteca Comunale “Carlo Servolini“ prosegue anche in quest’occasione l’ormai pluriennale strategia di valorizzazione del panorama artistico tra Ottocento e Novecento, compatibile, sia per il riscontro nelle collezioni permanenti del Comune di Collesalvetti, sia per la consanguineità rispetto alle vicende della saga dei Servolini, con quelle personalità che, come Anchise Picchi, segnarono il distacco dalla stagione postmacchiaiola e conseguentemente l’avvento di coraggiose sperimentazioni stilistiche.
Patron in svariate occasioni di Anchise Picchi, Luigi Servolini ne celebrò con grande eco la produzione pittorica e plastica in occasione dell’Antologica di Pittura e Scultura del 1978 a Palazzo Strozzi di Firenze (8-30 aprile 1978), soffermandosi in particolare sull’originaria vocazione all’intaglio ligneo, caratterizzata da uno spiccato registro decorativo, rispetto al quale non può esimersi, in quanto xilografo, dall’apprezzarne la tecnica a “sgorbiate carezzanti le superfici che modellano figure e cose stagliate su fondo paesaggistico in un bassorilievo che talora rasenta il medio” (Luigi Servolini 1978).
Proprio in analogia con la sintesi decorativa conseguita da Picchi nell’arco della sua attività scultorea, Luigi Servolini scandisce con consapevolezza critica la transizione del colligiano, stavolta in ambito pittorico, dall’iniziale “gusto finemente impressionistico” alle fasi successive di una pregevole evoluzione stilistica, riassumibile a suo giudizio in tre periodi, il primo coincidente con “una pittura tradizionale realistica, postmacchiaiola”, relegata a “una tematica per intero provinciale”; il secondo, più diversificato sia sotto il profilo tecnico, che relativamente al ventaglio dei soggetti, decisamente più significativo, in quanto caratterizzato da “una maggiore forza chiaroscurale e cromatica, un’intensità tonale più cupa e di ampio respiro sempre secondo una visuale iperrealistica e con tendenza al simbolismo”.
Non esita dunque Servolini a promuovere con particolare enfasi questa seconda stagione, in omaggio alla capacità di Picchi di attingere a un serbatoio tematico di ormai dichiarata attinenza allegorica, definitivamente distanziato rispetto alla logica del provincialismo artistico e orientato verso traiettorie simboliste, sottolineate da una pennellata analitica che punta a rinsaldare l’evidenza plastica della composizione, anticipando movenze e ragioni del terzo e ultimo periodo, di registro definitivamente neodivisionista, o, per dirla ancora una volta con lo xilografo livornese, “postdivisionista”, tendente tuttavia, rispetto alla stagione precedente, a una pastosità cromatica funzionale a “certi effetti pulviscolari”.
Selezionate per il percorso espositivo della Pinacoteca Comunale “Carlo Servolini” 23 opere cruciali di Picchi funzionali a scandire il corso espressivo più specificatamente rivolto al superamento della logica postmacchiaiola: si citano in particolare l’enigmatico “Autoritratto” (1973-1974), tratteggiato in termini di sfida verso il clichè autocelebrativo, “senza accentuazioni caratteriali, come molti fanno, lampeggiando lo sguardo per rendersi più interessanti e meno… veri”; il suggestivo e monumentale “Nebbia sull’aia” (1975), caposaldo della trasfigurazione visionaria del paesaggio colligiano, verso indefiniti orizzonti, dove “sopravvive qualcosa che va ben al di là dell’idea e della forma, qualcosa che noi tutti portiamo, inconsapevoli, nella sconosciuta terra dell’anima: la Poesia” (Anchise Picchi); o, ancora il fiabesco “Maschere nel bosco” (1987), allegoria di dialoghi sospesi, dove nell’atmosfera nebulosa comunicano “non nel dettaglio descrittivo, ma nella poesia delle masse, delle luci e delle ombre”.
Contiguo all’entourage del Gruppo Labronico, nell’ambito del quale condividerà suggestioni e riflessioni soprattutto con Renato Natali, Picchi si orienterà successivamente verso certe soluzioni linguistiche in linea con la lezione di Pietro Annigoni, finché, sempre più determinato alla formulazione di una grammatica espressiva di regime assolutamente autonomo, si concentrerà nella trascrizione di paesaggi e composizioni sull’onda di una mai sopita vocazione musicale, come sembra confermare il ciclo beethoveniano, di cui la “Sesta sinfonia” (1976), sigilla la vocazione soprannaturale dell’artista: “(…) il vero artista è molto vicino all’asceta: molto sente e poco condivide. In questo la tensione mistica è volta a Dio, in quello ad un mondo ideale e metafisico che travalica i limiti di ogni metrica finita del mondo reale per attingere, con primitivo stupore, alle dimensioni sconosciute ed eterne dell’assoluto, del sogno, dell’infinito”.
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