Ad arricchire il Calendario è stato varato un programma articolato di interventi scientifici ricchi di rivelazioni storiografiche e acquisizioni documentarie, visto che stavolta la ricognizione scientifica si dilata dagli avvenimenti artistici al settore archeologico, in omaggio a quel fenomeno di propaganda dell’antico che vide nell’impegno propulsivo di Ugo Ojetti e nel ruolo dominante della rivista “Dedalo” un palcoscenico privilegiato.
Piattaforma programmatica per il rilancio del “primitivo”, che si tratti di una terracotta etrusca, di un avorio bizantino o di un idolo della Guinea e della Polinesia, “Dedalo” inneggia negli anni Venti a un paradigma di ingenuità formale di matrice anti-impressionista, che divenga garante di formulazioni linguistiche di estrema anticonvenzionalità. Dall’età arcaica alla scuola bizantina, dal romanico al Trecento, dilagano tra le pagine della rivista le mode dell’antico, anche se è proprio la civiltà etrusca, quella così empaticamente avvertita da Mario Tinti nelle lettere volterrane indirizzate a Ottorino Razzauti, a guadagnarsi il primato con riferimento in particolare a quel quoziente di “espressività” che la rendeva la candidata eccellente rispetto all’affermazione di una formula antiaccademica, forse proprio in virtù delle asserite analogie con l’arte romanica, apice quest’ultima di “un magnifico arcaismo” denso di un altissimo gradiente di umanità.
Sarà quindi Alessandro Della Seta, nel suo pionieristico intervento intitolato Antica arte etrusca, apparso sul fascicolo di “Dedalo” del febbraio 1921, a farsi interprete autorevole di quella categoria di funzionari dello Stato e direttori delle Soprintendenze, al contempo conclamati storici dell’arte, destinati ad assurgere a tutori di una profonda conoscenza del patrimonio artistico italiano, e quindi portavoci di una disciplina antiscolastica, in omaggio all’istanza ojettiana di riconciliare il grande pubblico con l’arte antica e l’archeologia. A tale obiettivo contribuiva strategicamente il ricorso a vere e proprie gallerie fotografiche dove le teste etrusche in terracotta di Veio venivano presentate al pubblico di “Dedalo” secondo una prospettiva scenografica che ne enfatizzava il pathos attraverso la drammaticità degli effetti luminosi, così come i capolavori del Museo Archeologico di Venezia, dal Vitellio Grimani alla Demetra, si imponevano, grazie a tale accattivante veste editoriale, nella loro scioccante espressività primitiva.
Prevista come puntata inaugurale (giovedì 3 ottobre, ore 17.00), la presentazione del volume Ottorino Razzauti. L’espressione trascendente del vero. Dialoghi sull’italianismo artistico di Francesca Cagianelli, mira alla valorizzazione dell’inedita personalità razzautiana, la cui tempra intellettuale costituisce un contributo accertato rispetto al prestigioso cenacolo che tra Castiglioncello e Firenze assiste alla convergenza delle istanze dell’italianismo artistico e alla celebrazione della triade Fattori–Cézanne-Van Gogh siglata dalla monografia SELF a firma di Oscar Ghiglia. Battezzato all’alba del secolo breve dalle vaticinanti divagazioni letterarie di Mario Tinti volte a trasfigurare il mito di una Volterra etrusca e medioevale attraverso la musicalità dell’estetismo dannunziano, Razzauti può definirsi oggi uno dei più illuminati proseliti del messaggio di una più domestica archeologia propalato da Ojetti sulle pagine di “Dedalo”.
Seguirà, giovedì 17 ottobre 2019, alle 17:00, la seconda puntata del Calendario coincidente con la conferenza di Stefano Bruni, professore di Etruscologia e Antichità italiche presso il Dipartimento di Studi umanistici dell’Università degli Studi di Ferrara, dal titolo Gli Etruschi e l’arte italiana del primo trentennio del Novecento: alle origini di un fenomeno diffuso, volta a sottolineare come la scoperta, nel 1916, dell’Apollo di Veio e delle altre sculture che decoravano il tempio di Portonaccio, e la loro pubblicazione, nel 1919, abbiano avuto uno straordinario riverbero nel mondo dell’arte italiana dei decenni compresi tra i due conflitti mondiali.
Se l’attenzione si è particolarmente appuntata nel campo della scultura, dove fin dai primi anni Trenta uno studioso come Francesco Sapori, sulle pagine di Emporium, indicava in Libero Andreotti, Romano Romanelli, Arturo Martini, Marino Marini, Corrado Vigni e Domenico Rambelli la schiera di quegli artisti che più risultavano attratti dalle “suggestioni autoctone dei padri etruschi” – asserisce lo studioso – non sono tuttavia mancati riflessi anche nell’ambiente solo apparentemente meno coinvolto della pittura. È così successo che, nel più generale quadro del riconoscimento di una paternità aurea che affondava le proprie origini nell’esperienza del rinascimento e, più addietro, nell’esempio giottesco, anche il fondatore della moderna maniera toscana, Giovanni Fattori, venisse definito “etrusco” nel 1926 da Mario Tinti. A Firenze, e più in generale in Toscana, tuttavia la memoria etrusca è fenomeno che pare svincolato dalle scoperte veienti e che si manifesta assai precocemente, fin dai primissimi anni del Novecento, come testimonia una lettera dello stesso Mario Tinti del settembre 1901 al cognato, Ottorino Razzauti. In questo quadro un caso – conclude Bruni – assai significativo è quello di Oscar Ghiglia, che mostra nell’intero arco della sua vicenda un costante riferimento al mondo antico, ed etrusco in particolare.
Come terza puntata del Calendario, giovedì 17 ottobre 2019, è prevista la conferenza di Cristina Cagianelli, archeologa e storica dell’arte, insegnante di Scuola Secondaria, dal titolo Sincronicità dell’antico nella pittura surrealista di Alessandro Scheibel. La produzione pittorica e grafica di Alessandro Scheibel, attivo a Firenze tra l’inizio degli Anni Trenta e la fine degli Anni Settanta del Novecento, parte dall’alunnato presso Felice Carena per arrivare poi al Surrealismo e all’Astrattismo sotto l’egida della famosa gallerista Fiamma Vigo. Nell’ambito di questa produzione è centrale il recupero di culture arcaiche e addirittura preistoriche, e in particolare di quella egizia ed etrusca, recupero previsto a vario titolo nel repertorio figurale della pittura italiana tra gli anni Quaranta e Cinquanta e presente, tra l’altro, sulle pagine della rivista fiorentina “Numero”, diretta da Fiamma Vigo e di cui Scheibel fu a lungo segretario di redazione.
A differenza però di quanto si verifica per artisti a lui contemporanei, tale recupero non si connota come continuità con il passato, o come rimando alle proprie radici culturali, ma piuttosto come un fenomeno che si colloca fuori dal tempo storico, proprio perché proveniente dalla sfera dell’inconscio, dove le immagini seguono un flusso analogico. Scheibel attinge infatti alla filosofia junghiana, in cui assume particolare rilievo la teoria degli archetipi visti come tratti comuni a tutte le culture e che vanno a costituire l’inconscio collettivo, quali la nascita e la morte, il sole e la luna, i fenomeni naturali e sovrannaturali.
Si tratta di una visione incentrata sul concetto estremamente attuale di intercultura, secondo cui si evidenziano elementi comuni nella storia dell’umanità, alla continua ricerca di un rapporto di armonia fra sé e l’Altro. Pur trattandosi di un percorso di pensiero interiore si possono comunque individuare degli avvenimenti storici che indubbiamente contribuirono a integrare tale percorso. E così, per il recupero dell’arte preistorica, furono fondamentali gli stimoli provenienti dal Primo Congresso Internazionale di Arte Moderna, tenutosi in Spagna, a Santillana del Mar e nelle Grotte di Altamira, dal 19 al 25 settembre 1949, celebrato sulle pagine di “Numero”. Per quanto riguarda l’arte etrusca ebbe un notevolissimo impatto la mostra nei chiostri delle Oblate a Firenze del 1952 e la grande mostra del 1955, che si articolò su più sedi, Zurigo, Milano, Colonia, l’Aia e Kioto. Per quanto riguarda l’arte egizia, invece, è possibile mettere in rilievo il clamore suscitato dalla scoperta della tomba di Tutankhamon, evento travolgente quest’ultimo da cui l’artista rimase particolarmente colpito.
Giovedì 31 ottobre 2019, alle 17:00, è la volta di Silvia Panichi, archeologa e storica dell’arte, protagonista della 4° puntata del Calendario, che curerà la conferenza Dalla storia antica all’illustrazione moderna: la passione “romana” di Duilio Cambellotti e la Leggenda di Tarpea. Mastodontico e geniale autodidatta della scena romana primonovecentesca, pittore, scultore, ceramista, cartellonista, xilografo, scenografo, architetto, decoratore, arredatore designer, Duilio Cambellotti (Roma, 1876-1960), appassionato di itinerari archeologici tra Atene e Costantinopoli, destinò la sua parabola creativa all’indissolubile binomio arte-artigianato e collezionò vasellame sia etnico che archeologico, quale fonte di suggestione per la sua straordinaria produzione di buccheri.
Nei frangenti della realizzazione degli arredi e dei costumi per il film Gli ultimi giorni di Pompei di Mario Caserini e in coincidenza dell’ideazione delle scenografie per le rappresentazioni del Teatro Greco di Siracusa, l’artista, motivato da quella ritualità teatrale sancita dalla riforma di Richard Wagner e dal Teatro di Bayreuth, articolerà il suo immaginario archeologico in direzione di un linguaggio programmaticamente moderno, tra determinazione architettonica e sintesi arcaicizzanti. In quest’ottica, dalle scenografie per Ifigenia in Tauride e le Trachinie (1933) a quelle per Edipo a Colono (1936) Cambellotti persegue l’obiettivo strategico della “scena-ambiente”, realizzata quest’ultima grazie all’applicazione del concetto di “arte totale”, e finalizzata alla comunicazione di miti e immagini-simbolo di regime universale. Rivivono dunque grazie al contributo delle nuove tendenze della scenografia quelle Leggende Romane affidate dall’artista alla vigoria del segno xilografico, destinate a ridensificare di implicazioni simboliche l’epopea tragica e trionfale dei primi popoli del Lazio e a restituire “l’energia spirituale del passato” attraverso la passionalità e l’universalità del dramma.
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