Le maschere. Un qualcosa che richiama il carnevale, ma lo stesso universo teatrale nel quale l’Opera ha la sua dimensione naturale. E proprio ai compositori operistici del buffo era dedicata questa serata. Quantomeno… ad alcuni di questi: Gioacchino Rossini in primis (principe dell’ironia musicale) ma anche Gaetano Donizetti (che ha composto, anche sulla falsariga dello stile rossiniano, per poi trovarne uno proprio ed originale, melodrammi sia buffi che seri) e anche Pietro Mascagni, operista dallo stile molto diverso da quello di questi altri due compositori, che pure si è cimentato nell’universo nel buffo, che questo appuntamento colligiano voleva celebrare.
Le maschere. È anche il titolo di un’Opera di Mascagni composta nel ‘900 spaccato. Le maschere. Un’espressione che indica tutta una dimensione psicologica delle persone, che nel mondo teatrale è incarnata al massimo. Ogni personaggio d’Opera ha una sua personalità, una propria dimensione psicologica, diversa, di poco o di tanto a seconda del caso, da quella dell’attore che lo impersonifica. E proprio per questo nell’Opera il cantante-attore deve indossare quella maschera al meglio. Le maschere. Un modo di essere. Obbligato in teatro, non necessario, anzi proprio sconveniente, nella vita reale. A tutto questo era dedicato lo spettacolo ieri.
Il tutto reso fin dall’inizio, con la regista e cantante Maria Cristina Osti che sale sul palco scenico interrompendo il M° Eugenio Milazzo che stava suonando al pianoforte. La Osti, dopo un siparietto col pianista, ha esordito citando Mascagni che parla di Rossini, contrapponendo il “cupo teatro moderno” della sua (di Mascagni) epoca al quale la gente affluisce per “rovinarsi la digestione con violente emozioni” alla ridente scherzosità del teatro rossiniano. Poi, la regista è passata a parlare della «migliore accuratezza psicologica nella definizione del personaggio» che c’è nel teatro musicale donizettiano. Infine, spazio ai brani ovviamente.
Le maschere. Ogni cantante-attore ne indossa una, diversa in ogni singola Opera, proprio a definire quella dimensione psicologica del personaggio tanto esaltata, come è stato giustamente sottolineato, nel teatro del compositore bergamasco. Ma non solo. C’è il servo scaltro. È il Figaro del Barbiere di Siviglia, di cui è stata eseguita la celebre aria Largo al Factotum in apertura. E c’è il vecchio brontolone, sempre del Barbiere rossiniano. È Don Bartolo, di cui è stata cantata l’aria A un dottor della mia sorte. E ancora il prete opportunista, Don Basilio, che nel capolavoro del compositore pesarese canta La calunnia, vero gioiello della produzione rossiniana. Nell’universo femminile, poi, sempre di questa famosissima Opera, c’è la fanciulla bella e furba, che canta Una voce poco fa. Dopo il Barbiere di Siviglia, è stata la volta di un altro masterpiece rossiniano: La Cenerentola. Altra maschera da indossare, fra le altre, quella del padre cinico. È Don Magnifico, che nell’Opera, fra le altre cose, canta Miei rampolli femminini.
Gli interpreti Ad esibirsi sul palco, in questo secondo appuntamento delle domeniche a teatro della Sala Spettacolo, il baritono Clorindo Mazzato (che ha interpretato l’impervia cavatina di Figaro dal Barbiere rossiniano; bravo nel cimentarsi con l’aria di Tartaglia), il basso Lorenzo Nincheri (basso profondo dalla voce scura, che si è cimentato nell’aria dal difficilissimo sillabato di Don Basilio) e il soprano Antonella Biondo (voce molto ben impostata, rotonda, dal bel timbro e brava nell’interpretazione scenica della malizia del personaggio rossiniano). Tutti accompagnati da un magistrale M° Eugenio Milazzo.
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