Francesco, perché, a tuo giudizio, c’è questa difficoltà da parte di larghissime fette di popolazione giovanile a trovare lavoro in Italia?
«Questa è una domanda da un milione di dollari!».
La tua percezione, di ragazzo stagnino. L’esperienza vissuta sulla tua pelle, non grandi ragionamenti macroeconomici, che in questa sede non ci interessano.
«Quando analizzo un qualsiasi tipo di problema, noto che difficilmente la colpa è unilaterale. Credo che se vogliamo analizzare questo problema, dobbiamo cercare le colpe da ambo le parti, quindi chi cerca lavoro e chi lo offre. Chi lo offre spesso cerca più che di coltivare un dipendente, di sfruttarlo il più possibile, massimizzando il guadagno solo nel breve periodo. Si cerca di sfruttare tutti i cavilli per far sì che quella persona non sia una risorsa umana che rimane in azienda tutta la vita o buona parte di essa, ma un elemento da mantenere finché torna comodo. Non si dà modo di valorizzare un’esperienza acquisita negli anni; non c’è modo di fidelizzare l’impiegato. Mentre se dovessi imputare una colpa all’altra parte, noto che spesso si cerca di ottenere un lavoro subito, senza alcun tipo di sacrificio e volontà di imparare. Vedo che molte persone si pongono come se già sapessero cosa devono fare, magari solo a fronte di un titolo di studio, ma si sa… la teoria è una cosa e la pratica un’altra. Non c’è il minimo spirito di sacrificio, spesso, anche per spostarsi, per accettare condizioni contrattuali un po’ peggiori all’inizio per poi salire. No; si cerca subito il contratto a tempo indeterminato, la paga massima a fronte del minimo sforzo e spesso (e la cosa mi delude) noto persone che hanno, per merito o per fortuna, un impiego e non lo rispettano; non si impegnano nel lavoro, lo danno per scontato. Questo è il parere basato sulla mia esperienza».
La politica ha delle responsabilità in questa crisi del lavoro? Cosa si può fare per rilanciarlo?
«Se quella di prima era una domanda da un milione di dollari, questa è almeno da due o tre. Sarà il mio background di studi economici, ma io penso che le persone agiscano, forse in maniera un po’ gretta, per massimizzare il proprio profitto. Se i vari imprenditori, manager, commercianti si comportano così è perché le leggi consentono loro di farlo. Ovviamente, fare un discorso compiuto sull’argomento risulterebbe lungo e complesso».
Certo, ripeto… questa volutamente non è un’intervista al Ministro dell’Economia o ad altro grande esperto. Ci può essere il grande economista che magari è deputato: ha un’indennità enorme, guadagna tantissimi soldi al mese, matura in pochissimo tempo i requisiti per andare in pensione (mentre una persona comune ci impiega 40 anni di lavoro)… ecco: difficilmente questa persona avrà il polso della situazione da quelle ovattate stanze parlamentari. Al contrario, un comune ragazzo che vive in una zona periferica, in un Comune di 17.000 abitanti, può fornire spunti di riflessione, basati sull’esperienza maturata sulla propria pelle, molto più concreti, attinenti alla realtà. Il giornalismo dovrebbe essere questo: una fotografia della realtà.
«Sì. Sentire certe cose effettivamente fa venire rabbia. Io penso che la soluzione possa essere detassare il lavoro, incentivare le assunzioni, rendere più agevole assumere e soprattutto incentivare le imprese a mantenere le persone assunte nell’organico aziendale, invece di favorire l’assunzione per un periodo di tempo, per poi mandare a casa. Sulle pensioni, poi, penso, molto banalmente, che quando una persona raggiunge l’età pensionabile, a fronte di un periodo di lavoro che non sia 1 anno, 2 anni, 2 anni e mezzo e un giorno… dovrebbe ricevere quanto ha versato. Questo è il costo che paghiamo per scelte sbagliate, per una burocrazia non efficiente».
Quindi, detassare il lavoro, incentivare le assunzioni, una legislazione che faccia sì che ci sia un incentivo a mantenere la persona assunta in azienda…
«Un’altra cosa mi è venuta in mente e sarebbe molto importante. Ci sarebbe chiaramente da lavorarci su, io la butto lì in maniera un po’ bruta: disincentivare le persone a lavorare una volta raggiunta l’età pensionabile. Mi spiego: per quanto una persona possa essere qualificata e competente, specialmente quando si parla di lavori non usuranti, quella persona deve lasciare il posto a dei giovani che cercano un lavoro per costruirsi un futuro. Perché vediamo professori di 90 anni (solo per fare un esempio), delle persone che dovrebbero essere già in pensione, che sono sempre lì?! Il numero di posti di lavoro non è infinito. Credo sarebbe il caso di lasciarli a chi ha veramente bisogno. Quando una persona ha svolto un lavoro come il professore universitario per una vita, non credo che abbia bisogno di ulteriori entrate per arrivare a fine mese. Lascino per far posto a qualche giovane che sta imparando e ha bisogno per pagarsi il mutuo. So che può sembrare un ragionamento… qualcuno direbbe populista, ma…».
É la base del buon senso.
«Esatto: credo sia la base del buon senso».
Fin ora abbiamo parlato di misure applicabili a livello nazionale (legislazione sul lavoro, detassazione, etc…). A livello locale, invece, a tuo giudizio, è possibile far qualcosa? Chi dovrebbe guidare un eventuale cambiamento, ossia un’Amministrazione Comunale, cosa (se c’è qualcosa di fattibile) può fare? Nel territorio specifico, penso all’Interporto, per esempio… C’è qualcosa che si può fare, secondo te, sul locale per rilanciare il lavoro oppure non ci sono margini di intervento?
«Credo che in qualsiasi contesto ci sia sempre un margine di intervento. Non credo in generale alle persone che dicono di non poter far niente. Ovviamente non mi sto riferendo a qualcuno nello specifico; è un discorso generale. Cosa sia possibile fare in ambito locale, è complesso dirlo. In generale credo che ogni territorio dovrebbe analizzare le risorse che ha e da lì partire con un ragionamento. Hai parlato dell’Interporto, che rappresenta una grande opportunità di lavoro. Una realtà da aiutare e sfruttare. La politica può fare anche in ambito locale, ma ci deve essere un percorso di dialogo e partecipazione per raggiungere dei risultati; agire senza un’idea può portare più problemi che vantaggi».
Quindi potrebbe esserci una sorta di tavolo del lavoro, una discussione pubblica su questo tema?
«Di base, ascoltare non fa mai male, poi uno può rimanere della propria idea, ma confronto e dialogo, come ho sempre detto, sono la base di una buona e sana politica».
Vivendo il territorio, come ti sembra che giri l’economia? Per la tua esperienza personale, come vedi funzionare l’economia sul territorio colligiano? Quali i punti di forza e quali quelli di debolezza? Dove bisognrerebbe andare ad agire e come dovrebbe cambiare la mentalità dell’imprenditore o del commerciante locale?
«Credo che nelle realtà piccole come la nostra occorra lavorare sulla sinergia. Su realtà grandi, come in città, questo è complesso, ma in zone piccole come la nostra, credo che la collaborazione sia possibile. Laddove i singoli non arrivano, si arriva tutti assieme. Sarebbe buono, per fare un esempio, che i ristoranti della zona utilizzassero prodotti di fornitori locali a chilometro zero. Così come le aziende del territorio potrebbero assumere gente della zona, pur a fronte di una preparazione specifica. Le possibilità sono tante. Credo che effettivamente un tavolo del lavoro – dove le persone interessate parlano, ascoltano e propongono – sarebbe un’ottima idea, una cosa benefica per il territorio».
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