L’editoriale La vera sfida per chi fa politica oggi. Le acque in casa dei partiti sono molto agitate in queste settimane. Quantomeno… a livello nazionale, con il PD alle prese con le scissioni di componenti dal proprio interno e il suo congresso e con il Movimento Cinque Stelle che si cimenta con le difficoltà del governo della capitale. A livello locale, colligiano, queste fibrillazioni sono infinitamente ridotte nella loro intensità. Ma al netto di questa oggettiva diversità, c’è una sfida comune a tutti coloro che vogliono fare politica oggi.

 

La sfida è quella propria della politica: aggregare e creare consenso attorno ad un’idea, ad un progetto che si ha per la realtà che si governa o che ci si candida a governare. E già qui emergono due problemi. Il primo: creare consenso attorno ad un’idea, ad un progetto, ad una singola questione significa spostare il baricentro sulla questione oggettiva, su fatti. E non sulle persone, sui leader (attuali o da creare), sul carisma. C’è un abisso fra la politica e il Paese reale. La gente ha più che mai bisogno di risposte concrete; ha bisogno di una stabilità (economica anzitutto), di condizioni reali per mantenere sé stessa e i propri figli. Credo che i dati sulla disoccupazione (soprattutto quella giovanile), sulla povertà, sulla precarietà di quelle condizioni che dovrebbero essere le fondamenta tangibili di un’esistenza umana certifichino indiscutibilmente il fallimento di un sistema economico. Questo, questo deve tornare a tutti i livelli al centro del dibattito politico. Quando la politica discute (e, a stretto giro di posta, soprattutto agisce) in questa direzione, allora sì crea aggregazione, consenso. E… perché avere consenso? Per governare? E perché governare? Per (quantomeno tentare di) attuare quegli obiettivi che ci siamo prefissi o per impedire all’odiato avversario politico di prendere il potere a sua volta? O ancora per fare carriera? Ecco allora che la discussione introspettiva sui fini del nostro agire ritorna prepotentemente in causa, spinta dalla crisi della politica.

 

Dicevamo della necessità di concentrarsi sulle tematiche oggettive più che sulle sigle politiche e sui partiti. E qui emerge il secondo problema: la comunicazione del contenuto. Com’è che si comunica? Com’è che la politica fa comunicazione? Se si vuole uscire da questo corto circuito, è bene tenersi quanto più distanti possibile sia dall’utilitarismo che dall’apparire utilitaristi. Un esempio molto semplice: chi mi risponderebbe al telefono sapendo che io chiamo solo ed esclusivamente per chiedere soldi? Idem, mutatis mutandis, per la politica. Non è pensabile comunicare solo quando c’è da chiedere il voto. Perché la gente, accortasi del fine, dopo un po’ non risponde più. Certo, c’è ancora una larga fetta di elettorato (ma decisamente in su con l’età – e ho detto tutto!) che vota (giustappunto!) “per partito preso”, ma quanto si pensa possa ancora durare questo adagiarsi sugli allori?! Le nuove generazioni (già… c’è il problema della denatalità!) sono e saranno sempre più con l’occhio alle questioni concrete. Molto banalmente. Crei lavoro, stabilità economica, benessere, un sistema sanitario efficiente, infrastrutture, etc…?! Ti voto. Altrimenti, no. Potrà esser brutto, triste, banale, ma è così. Di un manifesto elettorale e del suo slogan, così come dei tweet dei politici – per riprendere il tema di “come si comunica” – non importa più niente a nessuno. Né, anche per altri aspetti, si può pensare di costruire un rapporto serio con la gente che non sia continuativo nel tempo. Ed è continuativo nel tempo un rapporto che è serio, basato sulla reciproca stima e fiducia, non disinteressato ma ispirato a nobili interessi, non utilitaristico, personale ma non personalistico. E questo vale per tutti gli attori in campo, dal nazionale al locale colligiano. Questa, la vera sfida per chi fa politica oggi.

 

diego.vanni@collenews.it

Twitter Vanni cronista 2

 

 

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