Riccardo Parrucci

Riccardo Parrucci

Nugola Una vita contraddistinta dalle passioni per la musica e per l’insegnamento. Questo è Riccardo Parrucci, 54, sposato, con due figlie, residente a Nugola, diplomato in Flauto Traverso e Musica Jazz (oggi lauree di I e II livello), musicista e professore di flauto traverso presso la Scuola Media ad Indirizzo Musicale “G. Borsi” di Livorno. Attraverso le pagine di Collenews, l’insegnante racconta il suo percorso professionale e la sua esperienza in ambito didattico.

 

Professor Parrucci, ci racconti la sua carriera di flautista.

«Il mio è un percorso che dura ormai da trent’anni e in costante crescita. A 22 anni, nel 1982, ho avuto il mio primo contratto professionale e guadagnavo abbastanza bene. Avevo la possibilità di fare molti concerti in un anno e vicino a casa. All’inizio ho suonato in un’orchestra locale e la prima Opera che ho eseguito è stata la Traviata al Teatro Goldoni: mi ricordo che all’epoca fu un’emozione grossa perché suonavo in una struttura che ospitava circa 1500 persone. Poi, oltre all’attività da orchestra, ho proseguito anche con l’attività da camera e la carriera dainsegnante fino agli anni ‘90. Nel corso degli anni, però, le cose sono cambiate per me e per altri concertisti perché si è ingrandita la divaricazione tra il supersolista e il musicista normale. Perciò, le orchestre sono andate in crisi, vedi il recente caso del Teatro dell’Opera di Roma, che non ha avuto abbastanza risonanza nel nostro Paese. La situazione è cambiata a tal punto che, in questo momento, in pochi possono permettersi di fare il musicista come trent’anni fa. Quando l’ambiente è cambiato, non ho proseguito la carriera di orchestrale, ma ho deciso di fare il flautista in piccoli ensemble e possibilmente in progetti particolari che mi dessero modo di esprimermi al meglio. Il primo progetto importante a cui ho preso parte è stato nel 1996, quando è stato inciso un disco di quello che incominciava ad essere un genere che poi si è sviluppato molto: il genere di confine, dove musica classica, jazz e tendenze stilistiche contemporanee si contaminano. Quell’album in particolare era composto da trascrizioni di musica sudamericana, di autori come Piazzolla o Villa-Lobos. Da lì, poi, sono andati in porto tanti altri lavori, come la collaborazione con Bruno Tommaso; ESP Trio; Tino Tracanna, Mauro Grossi; o il mio ultimo lavoro con un trio di flauti e un clarinetto basso, Quartetto Atmos, una formazione inedita nel panorama musicale. Pertanto, posso dire che la mia carriera si è sviluppata alla ricerca di un repertorio personale e trasversale piuttosto che tradizionale».

 

Da quanto insegna alle Borsi?

«Insegno alle Borsi da circa 20 anni. Ho iniziato però nell’84 e nell’86 sono diventato di ruolo come insegnante di educazione musicale. Dall’88 al ‘94 ho lasciato la scuola e ho iniziato ad insegnare al Conservatorio di Sassari. Dopodiché, sono entrato alle Borsi. Oltre a queste, ho fatto altre esperienze importanti: al Mascagni, come docente esperto esterno, e presso alcuni seminari e master class di tutta Italia per vari Conservatori e altre Istituzioni. Ho sempre cercato di trasmettere quello che era il mio percorso personale. Ma, soprattutto, ho incominciato a capire cosa potevo imparare dall’insegnamento quando ho iniziato a lavorare alle Borsi. Questo perché l’esperienza del conservatorio, pur ricca di soddisfazioni, mi faceva sentire quasi in stand-by dato che è un tipo di istruzione accademica. Al contrario, nei primi anni alle Borsi, ho imparato tantissimo perché ho capito che l’insegnamento doveva andare verso un rapporto molto più individualizzato, cercando di tirare fuori quello che l’alunno ha dentro di sé. L’insegnante è efficace quando interagisce ad un duplice livello con l’alunno: quello basilare, quando si instaura un rapporto tra le persone; quello alto, quando riesci a condurre il ragazzo verso il suo obiettivo personale».

 

Qual è la sua opinione sulla scuola italiana di adesso?

«Nel corso degli anni ho visto molti cambiamenti perché la scuola è uno spaccato di mondo. Questo ci deve fare capire prima di tutto che questa istituzione deve evolversi in relazione all’evoluzione della società. Il problema è che la scuola è rimasta ferma, è mastodontica come la burocrazia: pertanto, c’è poco spazio per l’insegnamento vero. Non sto facendo un discorso assoluto. Anzi, l’insegnamento assoluto di cui parlo si modella a seconda delle circostanze e mantiene, al tempo stesso, gli obiettivi. Per esempio, dato che molti laureati di oggi sono disoccupati, mi chiedo: è possibile che tutti debbano andare supinamente all’università? Non sarebbe il caso di introdurre delle scuole che siano più propedeutiche al mondo del lavoro? Degli esempi in Italia ci sono, anche se pochi, come gli Istituti Tecnici Superiori che si plasmano a seconda delle reali esigenze del territorio in cui risiedono. Tutti i buoni propositi inerenti alle proposte di riforma scolastica che sento sono delle mascherature per risparmiare soldi».

 

Com’è cambiato l’insegnamento nel corso di questi venti anni di Borsi?

«La tipologia di studenti nei quartieri del centro di Livorno è molto mutata, soprattutto a causa della presenza di molti stranieri. I primi albanesi hanno incominciato a frequentare le Borsi dai primi anni ’90, poi il fenomeno si è diffuso fino all’inizio degli anni 2000, quando il tessuto sociale di questo quartiere è completamente mutato. La situazione all’inizio è stata davvero problematica perché ragazzi di diverse culture hanno incominciato a frequentare la scuola. Ed è servito tempo per capire quale doveva essere il giusto approccio. Devo dire che alle Borsi sono andati in porto diversi progetti di integrazione e abbiamo invertito l’iniziale tendenza: adesso si può dire che c’è più integrazione e più omogeneità di comportamento nelle classi. A livello globale, tuttavia, devo dire che l’integrazione è un miraggio perché non tutti coloro che arrivano in Italia capiscono che debbono rispettare le nostre regole. E di contro, su questo fenomeno, è stata fatta molta demagogia e sono stati spesi molti soldi invano, senza un progetto coerente: di fatto, nel nostro Paese non esiste una politica migratoria seria».

 

Quale approccio dovrebbe avere un giovane che si avvicina per la prima volta alla musica?

«Quando si è giovani l’approccio alla musica è molto naturale. Questo avviene perché alle persone la musica piace. Poi esiste l’approccio scolastico, che è di due tipi: c’è chi vuole studiare musica e chi è costretto a farlo. Il contatto giusto con questa materia è quello dell’ascolto e, in un secondo momento, della produzione. Lo studio della storia e delle teorie arrivano dopo. Questa metodologia viene applicata all’indirizzo musicale delle Borsi. Se una persona, successivamente, ha intenzione di approfondire lo studio del proprio strumento, si entra in un ambito accademico e questo percorso assume una fisionomia più severa, che esige uno studio quotidiano e che potrebbe portare all’approccio professionale, anche se non è detto. La cosa importante è che lo strumento accompagna l’individuo lungo tutto il suo percorso di formazione culturale e personale. Quest’ultima è molto importante perché purtroppo, oggi, la scuola tende a lavorare sull’alfabetizzazione cognitiva ma non su quella emotiva, cioè sulle componenti che fanno stare bene una persona con se stessa».